L’attenzione rivolta da Healthy Brain Institute nei confronti dei malati coinvolge anche la sfera famigliare, offrendo supporto ai caregiver
Sulla base delle evidenze scientifiche, della pratica clinica e degli studi condotti, la percentuale di funzionamento dei protocolli medici adottati presso Healthy Brain Institute, in relazione alle patologie neurologiche trattate, come Alzheimer, Parkinson, ictus, si attesta all’80%. Il motivo, come spiega il dottor Marco Tramontano, è la selezione corretta e puntuale del paziente, la personalizzazione dell’approccio per essere il più efficienti possibili.
L’esperienza maturata consente di individuare degli elementi prognostici favorevoli nelle prime visite – ad esempio, racconta il dottor Tramontano, se non si è fatta una corretta terapia, si è fatta fisioterapia solo al lettino, è naturale che il paziente abbia difficoltà a camminare fuori casa. Anche il costo economico – ci sono pazienti che vengono da fuori Regione per fare il training combinato di stimolazione e fisioterapia – guida eticamente i medici del centro nel valutare correttamente il paziente da coinvolgere, il cui esito prognostico può essere favorevole.
Per offrire un trattamento che possa avere successo, durante la prima visita del paziente presso il centro, i medici propongono il trattamento migliore possibile, tagliato su misura delle esigenze del paziente stesso. Affinché il lavoro fisioterapico, osteopatico, logopedico e di stimolazione dia buoni risultati, è bene che il protocollo medico e gli obiettivi da raggiungere siano condivisi con il paziente e con il caregiver. Come spiega il dottor Marco Tramontano, in relazione alla sua esperienza con i pazienti neurologici in ambito riabilitativo, ciò che conta è limare le aspettative, generalmente molto alte, sia del malato sia di chi lo assiste: “è fondamentale partire da obiettivi più semplici per poi salire di grado”. A seconda delle patologie, gli obiettivi sono, infatti, differenti. Per i casi di ictus e trauma cranico, si tratta di recuperare le funzionalità, soprattutto motorie e linguistiche, dopo i primi sei mesi di fase acuta. Nelle malattie neurodegenerative, invece, l’impegno è volto a gestire, al meglio possibile, le capacità residue del paziente, per rallentare, laddove è possibile, la degenerazione della patologia stessa e migliorare il carico assistenziale dei caregiver. In questo secondo caso, il lavoro diretto sul paziente si accompagna al lavoro indiretto sul caregiver, perché, se, ad esempio, il paziente riesce ad alzarsi meglio del letto e a muoversi con maggiore autonomia, si riduce di conseguenza il carico assistenziale dei caregiver. In questo modo, si genera un effetto a cascata sulla qualità della vita e sulla pratica di vita quotidiana del paziente e di chi lo circonda.
L’utilità per la comunità nel dare sollievo al caregiver non è un end point soft, di poco valore, anzi. È un obiettivo di rilevanza per la comunità in maniera indiretta ed è analizzato macroscopicamente, perché chi assiste queste patologie così gravi – Alzheimer, Parkinson, ictus ischemici o emorragici – vive un forte senso di deterioramento della famiglia, delle proprie energie, dei legami affettivi. Il caregiver è generalmente in born-out, specialmente sul posto di lavoro. Soprattutto nei casi delle malattie neurodegenerative, l’attenzione maggiore va rivolta al caregiver, ricorda il dottor Tramontano, che è centrale nella pratica clinica di Healthy Brain Institute. Si deve insegnare al famigliare a gestire il paziente; se si riesce a dare qualche segnale positivo di una migliore autonomia del malato, è un grande passo avanti per il caregiver. La famiglia, d’altro canto, è centrale nel recupero del paziente: chi recupera di più, è il malato che ha il supporto familiare. È un’evidenza empirica basata sull’esperienza del centro.